Il ricordo di don Giuseppe Scivoletto, tornato alla Casa del Padre lo scorso 30 agosto 2020
Un disegno con la china, dai colori netti, è stata la sua vita. Un disegno progettato da Dio, ideato, curato, realizzato con cura e maestria, con i contorni definiti, i chiaroscuri e le sfumature, un disegno che aveva sempre un modello di riferimento, un’immagine sacra o una foto. Chi è andato a trovarlo negli ultimi anni potrà pensare a qualcuno dei suoi quadri, che lui mostrava orgogliosamente spiegandone la fattura e il percorso seguito, tra tutti andava molto fiero di quello che ritraeva il fratello Angelo, con cui aveva un legame finissimo intessuto di affetto fraterno, stima e ammirazione. Così immagino la sua vita: un’opera articolata, progettata, ideata e curata, vissuta nello sforzo e con lo sguardo di uomo e sacerdote sempre rivolto a Cristo. Padre Scivoletto fa parte della vita di molti di noi, c’è chi l’ha conosciuto da bambino, chi da giovane, chi da adulto. Ad ognuno ha dedicato tempo, idee ed energia. I primi ricordi sono legati al catechismo, quando lui veniva nei vari gruppi, si sedeva e a turno ci chiedeva “Per te cos’è la fede?”, domanda complicatissima, alle recite realizzate a San Paolo per le varie ricorrenze, ai campeggi a Villa Polara, agli incontri biblici, alle cene parrocchiali o ai momenti di fraternità. Nel mio caso, come per altri del gruppo giovanile della parrocchia, egli è legato anche al teatro, lui che, sull’esempio di Don Bosco, credeva, anche perché lo aveva sperimentato da ragazzo, nello spirito aggregante del teatro, mise a disposizione di noi, allora poco più che adolescenti, i locali della chiesa di S Paolo prima e di Sant’Agostino dopo, ed è lì che è nata la Compagnia del Piccolo Teatro. Padre Scivoletto in parrocchia si mostrava preciso, attento, schietto, a volte indolente, di certo franco e diretto. Questa sua franchezza non sempre ha giocato a suo favore, qualcuno ne era infastidito, ma in realtà è stata una delle cifre che ha contraddistinto la sua personalità. Ha rivestito i panni di parroco senza formalismi, ricordo i suoi incontri di lettura biblica e le sue spiegazioni dirette e, senza giri di parole, se pensava “Nun hatu caputu nenti” oppure che eravamo “cristiani fatti a fozza” lo diceva senza pensarci due volte; ma con la stessa intensità diceva che la chiesa è un cammino di comunità e che ci si salva insieme, “aiutiamoci a diventare santi” scrisse in una lettera a Mario. Dietro le sue lamentele o manifestazioni di pessimismo, che facevano emergere una certa sua insoddisfazione per la parrocchia io ho sempre letto il segno di una profonda amarezza. Non si è mai messo sul piedistallo a esprimere giudizi, ma ha in realtà manifestato con autenticità il suo rammarico per il divario tra la grandezza del messaggio cristiano e la piccolezza in cui, a volte, il cristianesimo viene poi declinato dagli uomini, siano essi uomini di chiesa o laici. Credeva talmente tanto nella verità di Cristo che l’essere cristiani tiepidi e non convinti fino in fondo lo addolorava. Aborriva quel cristianesimo che spesso si riduce a puro assistere, senza alcuna partecipazione vera, alla messa domenicale, o peggio ancora alle celebrazioni comandate. Il cristianesimo all’acqua di rose, frutto di abitudine e tradizione, lo faceva soffrire. E di questo non riversava la responsabilità solo sulle persone che Dio metteva sul suo cammino, ma anche su se stesso, anche su atti della Chiesa che in un certo senso avevano ampliato le distanze tra consacrati e laici. Per questo, di contro, aveva studiato, fatto proprio e divulgato i precetti del Concilio Vaticano II. Io credo che nella tavolozza dei colori, con cui ha dipinto il quadro della sua vita di uomo e sacerdote, troviamo tante parole che sono un testamento morale, spirituale e civile che egli ci ha consegnato. Un vocabolario sostanzioso che abbiamo la responsabilità di non disperdere.
di Comunità parrocchiale San Paolo al Carmine