«Abbandonare totalmente se stesso nella divina Provvidenza»
Quarta massima di perfezione cristiana
di Antonio Staglianò, vescovo
Il cristiano vive della/nella Pasqua del Signore Gesù. Anche nei momenti di grande sconforto e sofferenza, di umiliazione e di paura (= nella propria ineludibile via crucis), il cristiano sa, con certezza, che “tutto concorre al bene di quanti confidano in Dio Padre”. Questo sapere certo della fede “squarcia” anche la morte, il nostro ultimo e unico nemico e in questo terribile tunnel fa intravedere la luce della speranza. È una potenza di energia che ricrea il mondo e la vita di continuo, sconfiggendo la forza di gravità dei tanti “buchi neri” della nostra esistenza, attraversandoli con una forza misteriosa, per giungere ad acquistare la pace, la serenità del cuore.
Con la luce del Risorto si viaggia a una velocità incredibile e si raggiunge in pochi istanti il cuore stesso di Dio, dove una voce sussurra, leggera, la bella notizia: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39). La fede pasquale dona un gusto nuovo all’esistenza, perché la fede è uno stile di vita, un modo di abitare il mondo: quello per cui la paura, ogni paura è davvero vinta. Perciò la fede cristiana diventa un «abbandonare totalmente sé stesso nelle divina Provvidenza», secondo la Quarta Massima di perfezione cristiana del beato Antonio Rosmini.
Per il Fondatore dell’Istituto della carità, «non vi ha forse un’altra massima, che più questa conferisca ad ottenere la pace del cuore, e l’equabilità propria della vita del Cristiano». E commentando in modo conciso e insistendo sulla “singolarità” di questa Massima, ammette: «non ve n’ha forse nessun’altra, che venendo praticata con quella semplicità e generosità di cuore che ella addimanda, renda il seguace di Gesù Cristo più caro al celeste Padre».
Nelle nostre comunità cristiane abbiamo trasformato in canto liturgico quella bellissima “pillola spirituale” di Santa Teresa d’Avila: «Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta! Il tuo desiderio sia vedere Dio, il tuo timore, perderlo, il tuo dolore, non possederlo, la tua gioia sia ciò che può portarti verso di lui e vivrai in una grande pace». Tra i santi c’è tanta sintonia: la quarta massima del Rosmini è quella della tranquillità, e vuole dal cristiano la totale libertà da ogni forma di nervosismo e di ansia. Il ricco insensato del Vangelo, travolto dai suoi progetti e dalle sue preoccupazioni per il domani, finisce col perdere tutto.
Gli uccelli del cielo e i gigli del campo, senza seminare, né mietere, né filare, né tessere hanno invece ogni giorno da Dio cibo e vestito. Rosmini non vuole esaltare la pigrizia o l’inattività.
Ciò che chiede di evitare sono «l’ansietà», «la preoccupazione» che troppo spesso accompagnano l’azione.
Una bella attualizzazione, che mette insieme vita personale e raccordi con tutto il resto, ce la offre padre Giovanni Salonia, nel suo bel libro “Sulla felicità e dintorni”: «Di nessun sentimento o sensazione devi vergognarti: sei responsabile solo di ciò che ne farai. E se qualcosa che senti dentro ti darà fastidio, cerca piuttosto di capire cosa vuole dirti. Riascoltati dopo qualsiasi esperienza significativa, per vedere cosa hai appreso sulla vita e su te stesso, al di là del successo e del fallimento. Rinuncia a controllare la vita: la primavera fiorisce, anche se sei seduto e l’aspetti. Non spingere il fiume: scorre da solo. E non pretendere di fermarlo: saresti travolto. Lascia che ognuno sia sé stesso, così l’incontrerai nella verità. Dì quello che devi dire: il non-detto si trasforma sempre in una chiusura o in un mostro. Non pretendere di indovinare i pensieri e le motivazioni dell’altro (anche se sei psicologo o direttore spirituale) e non presumere di essere trasparente. Non affannarti a cercare la persona giusta; prova ad essere tu la persona giusta. Se parli con un bambino, chinati alla sua altezza: i suoi occhi diventeranno più luminosi. E se lo incontri per la prima volta, prima di chiedergli il suo nome, digli il tuo. Se qualcosa non ti va dell’altro, limitati a descriverla, non infierire su tutta la persona, sul suo passato o sul suo futuro. Se hai il gusto della bellezza e dell’eleganza nel rapporto con gli altri, conoscerai il calore che è la perla di ogni bellezza. Se non hai avuto tutto quello che volevi, non perdere quello che hai lamentandoti. Non confrontarti e non confrontare: nessuno è stato a lungo felice imitando qualcuno o vincendo i confronti. Rinuncia a vincere sull’altro: è un sentiero che non porta lontano. Se scegli di essere buono, leale, onesto, non aspettare che gli affari ti vadano bene per queste ragioni. Se credi in Dio, cerca di non farlo a tua immagine e somiglianza. Non pensare che la felicità possa percorrere solo le strade del benessere: si trova a suo agio solo sulle strade che portano al cuore. Se il tuo cuore è caldo e accogliente, un giorno la felicità (l’Altro?) verrà ad abitarlo».
Quest’abbandono determina stabilità, come ancora Rosmini sottolinea: «da questa massima ne viene la stabilità del perfetto Cristiano». E cosa è la fede se non “l’essere stabile in Dio”, nella sua promessa, fidandosi di Lui, affidandosi a Lui, confidando in Lui? E’ questo che caratterizza il cristiano dal “mondano”: «È proprio della gente del mondo il non esser mai contenta dello stato ove si trova: gli uomini del mondo si fanno una continua guerra per occupare i posti migliori; la perfezione del Cristiano richiede all’opposto, che di qualunque posto egli sia contento, ch’egli non si dia altra cura se non quella di esercitare i doveri che sono annessi allo stato; tutto al mondo per lui è il medesimo, purché sia caro al suo Dio, che ritrova in ogni condizione».