Lo stato di salute dei partiti ha rappresentato da sempre un punto centrale nelle discussioni politiche e culturali. Ancor più in un periodo come quello presente in cui questi strumenti, nati “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (Art. 49 Costituzione), stanno attraversando uno dei momenti più critici della loro storia. L’elevato numero di elettori che ha disertato le urne nelle recenti elezioni regionali – oltre la metà degli aventi diritto – è il segno più eloquente della sfiducia che gran parte dei cittadini nutre verso tutte le formazioni politiche, sia quelle che hanno vinto che quelle che hanno perso. Vincere o perdere le elezioni con il concorso di meno della metà degli elettori dovrebbe far riflettere sia i vinti che i vincitori, inducendoli a indagare, in modo serio e approfondito, sui motivi di tanto malessere. La reazione, invece, è andata in tutt’altra direzione. Archiviato il risultato elettorale, tutti i partiti si sono proiettati, come se nulla fosse accaduto, verso le prossime elezioni politiche, continuando a parlare esclusivamente dei loro problemi interni. Se persevereranno su questa strada, c’è da scommettere che il numero degli astenuti continuerà a salire, con evidenti danni per la credibilità e rappresentatività dei partiti stessi. Evidentemente lo stato di salute dei partiti non può coincidere esclusivamente con i risultati elettorali o con i sondaggi che ogni giorno vengono sfornati. Come si spiega che un partito, il PD, che alle elezioni europee del 2014 ha ottenuto con Renzi uno dei più lusinghieri risultati, oltre il 40% dei consensi, possa attraversare oggi una crisi così profonda? E di fronte ad un risultato più che lusinghiero alle recenti elezioni in Sicilia del centro destra e dei 5 Stelle, come vanno letti gli episodi di malcostume che hanno portato all’arresto, all’indomani delle elezioni, di candidati militanti nelle loro liste? Con l’aggravante che sia i 5 stelle che Forza Italia, ma anche gli altri partiti, avevano elementi sufficienti per prevedere questo scandaloso epilogo. Evidentemente la logica del successo – raccogliere voti – ha prevalso sulla logica del servizio: selezionare una classe politica secondo i classici criteri della competenza e dell’onestà. Lo stato di salute dei partiti di cui stiamo discutendo, si misura, allora, facendo ricorso ad altri parametri: l’individuazione dei problemi e la capacità di risolverli tenendo conto delle condizioni del Paese, delle sue risorse e delle sue prospettive. Si tratta di sensibilità che non s’improvvisano, si coltivano giorno dopo giorno. Pensare esclusivamente alla formazione delle liste, rinviando al dopo i problemi da affrontare e i modi come risolverli, costituisce un gesto di irresponsabilità. I tre blocchi – centro destra, centro sinistra e cinque stelle – che costituiscono l’attuale quadro politico, si presentano con le più variegate situazioni. Nel centro sinistra, scandalizza la contrapposizione, non sempre motivata, fra il PD e le altre formazioni – i cosiddetti “cespugli” dell’era Prodi”- nate dalla scissione dal partito democratico. Qui sembra che l’unico collante tra i dissidenti, fra cui molti esponenti che hanno avuto responsabilità di governo, sia costituito dall’avversione per il segretario del partito, Matteo Renzi. Nel centro destra le sorti della coalizione sono tornate nelle mani di Berlusconi, che alla sua veneranda età costituisce ancora l’asse portante di un gruppo di forze dove, peraltro, emergono vistose divisioni su taluni punti centrali, fra cui l’immigrazione e l’adesione all’Europa. Nei cinque Stelle, a parte la decisione di non fare coalizioni con nessuno, non si trova coerenza fra le tante lusinghiere misure annunciate e i mezzi necessari per realizzarle. E, in più, le prove fornite dai penta-stellati nei luoghi dove sono chiamati a governare non sono affatto lusinghiere. In queste condizioni, a meno di un’inversione di tendenza da ogni parte auspicata, saremo costretti a affrontare il futuro del nostro Paese.
di Pino Malandrino