La Shoah imperdonabile con Etty Hillesum, per una memoria attiva e creativa

Dov’è Dio nelle prove della storia? Come agisce Dio nel buio di epoche in cui si perde l’umanità? Dimmi se questo è un uomo! Rimbomba alle coscienze di tutti, l’appello di Primo Levi. La sua eco percorre distanze infinite, alla velocità della luce, raggiunge il cuore di Dio e ritorna come un boomerang, sbattendo forte le onde del mistero che inondano la ragione umana rischiando di farle smarrire la bellezza dello stupore, in un appello ancora più crudo: dimmi se questo è un Dio se permette l’imperdonabile mostruosità della Shoah. Dov’è Dio quando il dolore umano è infinito? E come si potrebbe rispondere a questi interrogativi, seduti a tavolino semplicemente riflettendo, o scrivendo pezzi di letteratura, in prosa o in poesia che fossero. Di sicuro a questo si riferisce l’interdetto pronunciato da Theodor W. Adorno: è illecito scrivere versi dopo i forni crematori e le camere a gas dell’Olocausto; dopo Auschwitz si deve tacere perché incombe un silenzio che è assoluto. Eppure c’è anche la necessità che il silenzio venga reso pubblico. Da qui, “l’attesa delle parole di questo silenzio” (Raymond Federman) che scavino nel profondo la memoria di tutti per ciò che è accaduto: un passato che non deve passare. Possiamo scoprire le “giuste parole” solo attraverso l’immedesimazione nel racconto del vissuto di chi ha fatto esperienza di quel silenzio disumano, a tratti assordante, come Etty Hillesum. 

Solo un testimone può rispondere alle nostre domande sull’uomo e soprattutto su Dio: «Inizialmente lontana da Dio […], nella sua vita dispersa e inquieta Etty Hillesum Lo ritrova proprio in mezzo alla grande tragedia del Novecento, la Shoah. Trasfigurata dalla fede, si trasforma in una donna piena di amore e di pace interiore, capace di affermare: “Vivo costantemente in intimità con Dio”» (Benedetto XVI). 

Etty ha un’intuizione: Dio è dentro di noi se la preghiera diventa un fargli spazio, fino a scoprire che siamo noi a poter fare qualcosa per lui, ma anche come sia importante contrastare il male con il bene. Un contrasto espresso in un desiderio che lascia intravedere l’alternativa alla prepotenza nella delicatezza (e papa Francesco in Fratelli tutti ci ricorda quanto sia importante la gentilezza): «Si vorrebbe esser un balsamo per molte ferite». Con queste parole si conclude il Diario in cui lucidamente unisce affidamento a Dio e disponibilità a diventare suoi collaboratori: «Mio Dio, prendimi per mano, ti seguirò da brava, non farò troppa resistenza. Non mi sottrarrò a nessuna delle cose che mi verranno addosso in questa vita, cercherò di accettare tutto e nel modo migliore. Il calore e la sicurezza mi piacciono, ma non mi ribellerò se mi toccherà stare al freddo purché tu mi tenga per mano andrò dappertutto allora, e cercherò di non avere paura. E dovunque mi troverò, io cercherò di irraggiare un po’ di quell’amore, di quel vero amore per gli uomini che mi porto dentro. […] 

Una volta che si comincia a camminare con Dio si continua semplicemente a camminare e la vita diventa un’unica, lunga passeggiata». 

Come Gesù che va Gerusalemme, Etty impara a non preoccuparsi di sé stessa e coglie come l’alternativa del bene è tutto il contrario della rassegnazione. Diventa capacità di essere laddove Dio ci vuole presenti: «Dobbiamo abbandonare le nostre preoccupazioni per pensare agli altri, che amiamo. Voglio dir questo: si deve tenere a disposizione di chiunque si incontri per caso sul nostro sentiero, e che ne abbia bisogno, tutta la forza e l’amore e la fiducia in Dio che abbiamo in noi stessi e che ultimamente stanno crescendo meravigliosamente in me. O l’uno o l’altro: o si pensa solo a sé stessi e alla propria conservazione, senza riguardi, o si prendono le distanze da tutti i desideri personali e ci si arrende. Per me, questa resa non si fonda sulla rassegnazione che è un morire, ma si indirizza là dove Dio per avventura mi manda ad aiutare come posso». 

Sull’esserci, Etty coglie il punto più delicato quando chiarisce come si possono unire lo sdegno contro il male e l’assenza di odio: «L’assenza di odio non significa di per sé assenza di un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più corta e a buon mercato? Laggiù (a Westerbork, nel campo di smistamento dove era rinchiusa) ho potuto toccare con mano come a ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo si renda ancora più inospitale. E credo anche, forse ingenuamente ma ostinatamente, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto». La Shoah è imperdonabile, perciò si può/si deve perdonare. Con le parole di Derridà: “Perdono, se ce n’è, perdona l’imperdonabile”. E poi, come in un circolo virtuoso, bisognerà perdonare anche questo perdono, perché è imperdonabile perdonare la Shoah. 

È imperdonabile perdonare l’imperdonabile, ma proprio per questo si può/deve perdonare, pensando alle generazioni a venire, all’umanità a venire: «Ho il dovere di vivere nel modo migliore e con la massima convinzione, sino all’ultimo respiro: allora il mio successore non dovrà più ricominciare tutto da capo, e con tanta fatica». Etty ci ricorda ciò che le epoche buie della storia vorrebbero annullare: ovvero che tutti gli esseri umani nasciamo “in debito” con altri e siamo destinati a vivere “in favore” di altri: nella sua testimonianza (e di tanti altri testimoni) questa verità granitica dell’umano risplende e aiuta una memoria attiva e creativa.

di Antonio Staglianò, vescovo 

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